Gli scogli tra scoperta e mercato

Netval
13 Dicembre 2021

Di fronte alla diminuzione delle opportunità nel mondo accademico, molti scienziati italiani vedono negli spin-off un’alternativa attraente. Ma il passaggio è difficile.

Dopo diversi anni trascorsi a studiare la materia oscura in vari laboratori europei, l’astrofisica Lidia Pieri si sentiva insoddisfatta. Tanto da lasciare la ricerca accademica e tentare la fortuna in un settore decisamente diverso, aprendo un’accademia di Tango argentino a Verona. Un giorno, un aspirante ballerino che partecipava al suo corso le presentò un conoscente, manager di una multinazionale farmaceutica. Pieri invitò allora il manager a visitare il laboratorio dell’Università di Trento dove suo marito, Pietro Faccioli, lavorava come fisico teorico. Insieme al biochimico Emiliano Biasini, Faccioli aveva sviluppato il protocollo PPI-FIT (Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediates Targeting), una tecnica che permette di studiare il processo di ripiegamento delle proteine per trovare nuovi bersagli molecolari per i farmaci.

Il manager farmaceutico rimase colpito, e convinse Pieri e Faccioli che valeva la pena portare l’idea fuori dal laboratorio e farne la base per un’azienda. Nel 2017, insieme a Biasini e altri soci, i due fondarono Sibylla Biotech come spin-off dell’Università di Trento, dell’INFN di Roma e dell’Università di Perugia. Sibylla Biotech ha poi ricevuto un finanziamento da un fondo di investimento, e successivamente ha stipulato un accordo con la multinazionale dove lavorava quel manager, entrando tra i finalisti dello Spinoff Prize 2021. Pieri ora ne è amministratrice delegata, e anche se ammette che il suo percorso di carriera si è svolto “fuori dai binari”, il lavoro le piace molto più del precedente impiego accademico. “Ora ho trovato la mia strada”, dice. “Vorrei averlo saputo allora”.

Sibylla Biotech è uno dei 1.695 spin-off di ricerca attivi in Italia, secondo Netval, un’associazione che monitora il trasferimento tecnologico nel Paese. In media, ogni anno vengono fondati circa 120 nuovi spin-off e i dati più recenti mostrano che nel 2018 gli spin-off italiani hanno ottenuto 604 brevetti e realizzato 4,2 milioni di euro di ricavi, ma con grandi disparità tra le istituzioni. Nelle università e nei centri di ricerca italiani ci sono ormai più di 60 uffici per il trasferimento tecnologico (UTT) che assistono i ricercatori che vogliono creare un’azienda basata sulle loro scoperte, ma si tratta di un’innovazione relativamente recente. “La maggior parte di essi sono stati creati negli ultimi 20 anni” dice Andrea Piccaluga, vicepresidente di Netval. “In Israele, per esempio, esistono dagli anni ’50”.

In un paese dove le posizioni accademiche scarseggiano da molti anni, gli spin-off potrebbero creare più opportunità per i ricercatori qualificati, evitando che emigrino o, come nel caso di Pieri, che lascino la ricerca. “Dobbiamo trovare nuovi modi per sfruttare gli investimenti che facciamo sull’alta formazione e sull’istruzione superiore, altrimenti le menti più brillanti andranno all’estero”, dice Francesca Soavi, professore associato di chimica all’Università di Bologna che nel 2018 ha fondato Bettery, uno spin-off che sviluppa una batteria basata su un flusso semisolido litio/ossigeno. Soavi è anche coinvolta in Enercube, lanciato a Marina di Ravenna dall’Università di Bologna, un’iniziativa per facilitare il dialogo tra mondo accademico e industria.

Gestire uno spin-off, però, non è tutto rose e fiori. “I giovani laureati sognano in grande, ma può essere un percorso anche doloroso, e non meno difficile che diventare professore ordinario” dice Silvestro Micera, professore di Bioelettronica e Ingegneria al Sant’Anna (Pisa), e di Neuroingegneria Traslazionale all’EPFL (Svizzera), e consulente scientifico di SensArs, una società attiva nel settore della neuroprotesi che usa la stimolazione nervosa contro il dolore neuropatico cronico. E la transizione tra i due mondi è tutt’altro che facile. “L’attività imprenditoriale è totalmente diversa dalla condivisione universale della conoscenza, e a volte questi due mondi fanno davvero fatica a dialogare tra loro”, dice Alberto Santini, biologo molecolare, che nel 2006 ha co-fondato NGB Genetics, uno spin-off dell’Università di Ferrara che opera nella nutrigenetica.

Creare uno spin-off, un passo dopo l’altro

Il primo passo è la fondazione di una società, tipicamente basata su un brevetto, o altre forme di protezione della proprietà intellettuale. Questa fase è solitamente supportata dal UTT dell’università. Anche se il numero di impiegati negli UTT italiani è raddoppiato dal 2004, e nonostante le iniziative per rafforzare questo settore da parte dell’ufficio brevetti italiano e del Ministero per lo sviluppo economico, “il personale degli UTT italiani è ancora sottodimensionato rispetto ad altri paesi” dice Piccaluga. Il numero medio di dipendenti è di 5,6 secondo il rapporto 2020 di Netval. “Devono lavorare su brevetti, creazione di spin-off, progetti cofinanziati. In media solo una persona può lavorare sul licensing”, dice Piccaluga. Gli UTT italiani firmano in media 1,7 accordi di licenza o opzione all’anno, mentre in alcuni paesi la media arriva a 15 accordi all’anno.

In alcuni casi, detenere un brevetto e concedere licenze può essere sufficiente, ma la maggior parte degli innovatori sceglie di puntare in alto e diventare imprenditori a tutti gli effetti. Non tutti i buoni ricercatori sono però manager nati. “Sono stata una ricercatrice per più di 20 anni e ho dovuto cambiare completamente la mia mentalità quando ho fondato la mia azienda” dice Soavi. La parte più impegnativa, dice, è stata imparare a comunicare l’innovazione a investitori e manager, “un pubblico molto diverso da quello accademico e scientifico”.

Creare un team con competenze diverse, che vadano al di là della ricerca, è altrettanto importane, dice Andrea Cipollina, un ingegnere chimico che ha fondato nel 2017 ResourSEAs, uno spin-off dell’Università di Palermo la cui invenzione può estrarre acqua potabile, sale e materie prime dall’acqua di mare. ResourSEAs sta attualmente collaborando con le saline di Trapani per perfezionare la sua tecnologia. “Non abbiamo mai ricevuto una formazione imprenditoriale adeguata, e forse ci manca ancora un’anima da veri imprenditori”, dice Cipollina. “Tuttavia, ci appoggiamo a un consulente professionista per le decisioni aziendali importanti”.

Abbinare una posizione accademica con la gestione di uno spin-off può essere difficile, e alcuni professori faticano a farlo. “La nostra azienda ha ricevuto poco sostegno dai nostri partner accademici”, dice Santini. “Non ci hanno mai coinvolto in nessun network internazionale e vedevano questa come una scelta etica, un modo per evitare conflitti di interesse. Abbiamo avuto una svolta solo quando abbiamo investito in comunicazione, marketing e contatti commerciali, aspetti che gli accademici consideravano di scarso valore”. Anche tenere insieme il team originario non è sempre facile. Nel 2020, per esempio, Santini ha lasciato NGB Genetics a causa di attriti con i suoi soci. “All’interno di un’azienda alcuni comandano e altri obbediscono” dice. “Siamo partiti come un gruppo di quattro amici ma abbiamo finito per disperderci”.

Altri hanno esperienze più positive. “Non credo che gli spin-off universitari siano percepiti come una sottrazione di risorse al mondo accademico” dice Cipollina, che ha ancora il suo gruppo di ricerca all’Università di Palermo, e ora guida un progetto Horizon 2020 che include anche il suo spin-off tra i partner.

Fare profitto e diventare autosufficienti è l’obiettivo di chiunque inizi un’attività imprenditoriale, ma per molti spin-off è una meta ancora lontana. “Non lo si fa per i soldi, e chissà se o quando arriverà il profitto” dice Andrea Cipollina. “Lo si fa perché si sogna di vedere la propria idea prendere forma, e si spera di contribuire allo sviluppo della propria regione”. Neanche Sibylla Biotech fa ancora profitti. “Continuiamo a lavorare e a discutere con grandi aziende farmaceutiche” dice Pieri. “Quello che cerchiamo ora è un investimento di alto livello”.

Cambiamento di cultura

Quello che ancora manca all’Italia rispetto ad altri paesi, secondo Micera, sono finanziamenti di venture capital per sostenere gli spin-off nelle fasi iniziali. “Anche 100.000 o 200.000 euro sarebbero sufficienti per fare quello che serve per poi attrarre investimenti più grandi, e questo passaggio manca in Italia”, dice. Alcune cose però stanno cambiando, e negli ultimi anni sono stati lanciati alcuni fondi di VC che si concentrano sul trasferimento tecnologico. Per esempio CDP Venture Capital, lanciato da Cassa Depositi e Prestiti, o fondi privati come Pariter Partners, che sta investendo nella robotica, e Vertis SGR, che ha sostenuto Sibylla biotech. “Sono cose che solo tre anni fa non avrei mai sognato”, dice Micera.

Secondo Piccaluga, sono necessari anche maggiori investimenti sul personale degli UTT, sulla rimozione degli ostacoli burocratici, e sulla formazione all’imprenditorialità nelle università. Ma rendere gli spin-off una scelta attraente per i giovani ricercatori richiederà anche un cambio di mentalità. “Chi passa dalla ricerca accademica al business è spesso disapprovato negli ambienti accademici italiani” dice Pieri, secondo la quale le basi della gestione aziendale dovrebbero far parte della formazione accademica. “La maggior parte dei dottorandi vuole fare un post-doc, ma dovremmo insegnare loro che hanno anche la possibilità di seguire un’altra strada”.

doi: https://doi.org/10.1038/d43978-021-00147-x

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